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ToggleOgni estate, puntualmente, il dibattito sulle concessioni balneari si riaccende, tra polemiche politiche, tensioni con l’Unione Europea e forti pressioni da parte delle associazioni di categoria dei balneari. Ma qual è la vera posta in gioco? È davvero in corso un tentativo di “liberare le spiagge” o, più realisticamente, si cerca solo di rendere più equo e trasparente l’accesso a un bene pubblico di enorme valore economico?
In questo articolo facciamo chiarezza su uno dei temi più spinosi dell’estate italiana, analizzando i numeri, le norme, le sentenze, ma anche le resistenze corporative e gli interessi in gioco.
Quante sono le concessioni balneari in Italia?
Attualmente, su 645 comuni costieri marittimi italiani, si contano oltre 7.200 concessioni balneari, con l’Emilia-Romagna in testa grazie a più di 1.000 stabilimenti. Le spiagge, tecnicamente, rappresentano solo il 41% delle coste italiane, e sono in gran parte concentrate al Sud — la sola Calabria ne detiene il 20%. Ma queste spiagge sono spesso molto strette: mediamente, non superano i 35 metri di profondità.
In alcune zone, come in Liguria, si arriva a soli 22 metri, mentre sull’Adriatico la media è di circa 70 metri. E con l’innalzamento del livello del mare in corso, la disponibilità effettiva di spiagge utilizzabili è destinata a ridursi ancora.
Perché le spiagge sono “in concessione”?
Le spiagge italiane sono beni demaniali: appartengono allo Stato e, in quanto tali, non possono essere vendute, ma solo date in uso temporaneo a soggetti privati tramite una concessione. Si tratta, in sostanza, di un contratto pubblico che consente a un privato di gestire un tratto di costa — spesso per scopi commerciali — a fronte del pagamento di un canone annuo.
Secondo Unioncamere, alla fine del 2023 le imprese che si occupano della gestione degli stabilimenti balneari erano circa 7.000, con una crescita del 26% in 13 anni.
Il vero problema: niente gare, solo proroghe
In teoria, le concessioni balneari dovrebbero essere assegnate tramite gara pubblica. In pratica, però, da decenni questo non avviene. Le concessioni sono state prorogate automaticamente, spesso a costo irrisorio e senza alcuna selezione competitiva. Il canone medio versato allo Stato è stimato attorno ai 100 milioni di euro l’anno, una cifra ridicola se si considera che, secondo Legambiente, ogni concessione genera circa 400.000 euro di fatturato, con un’incidenza del canone di appena 1,2%–1,3% sui ricavi.
La Corte dei Conti è intervenuta in più occasioni, evidenziando che i canoni non sono proporzionati ai profitti conseguiti. Per di più, il tasso di evasione nel pagamento delle concessioni nel 2023 è stato del 18%.
La direttiva Bolkestein e la reazione italiana
La direttiva 2006/123/CE, meglio conosciuta come direttiva Bolkestein o “servizi nel mercato interno”, è un pilastro normativo del mercato unico europeo. Essa impone agli Stati membri di garantire concorrenza aperta e trasparenza nei settori dei servizi, anche quando si tratta di autorizzazioni o concessioni relative all’uso economico di beni pubblici. L’articolo chiave per le concessioni balneari è l’art. 12, che prevede:
- L’obbligo di gara pubblica imparziale per l’assegnazione di autorizzazioni se:
- L’attività è economica (anche ricreativa) e
- Le risorse naturali sono scarse, limitando il numero di concessioni disponibili.
- Il divieto di rinnovo automatico o privilegi per i concessionari uscenti.
L’Italia ha formalmente recepito la direttiva nel 2010, ma ha escluso le concessioni balneari, sostenendo che le spiagge non siano beni scarsi.
Da allora, si sono susseguiti rinvii, proroghe e leggi ad hoc:
- 2012: proroga delle concessioni fino al 2020;
- 2018: proroga estesa fino al 2033 con la legge di bilancio;
- 2021: il Consiglio di Stato dichiara illegittime le proroghe e ordina la cessazione di tutte le concessioni a fine 2023;
- 2022: il governo Draghi approva il DDL Concorrenza, imponendo gare pubbliche, niente più proroghe automatiche e mappatura delle coste.
Ma i problemi non finiscono qui.
Governo Meloni e il tentativo di frenare le gare
Il governo attuale ha tentato di rinviare le gare al 31 dicembre 2024, invocando la necessità di completare la mappatura delle coste. Secondo questa mappatura, solo il 33% delle coste italiane sarebbe in concessione e quindi non si tratterebbe di un “bene scarso” soggetto alla direttiva Bolkestein.
Tuttavia, Legambiente e altri osservatori hanno contestato il dato: la mappatura include anche tratti rocciosi, inaccessibili o non balneabili, falsando la proporzione. Di fatto, la parte di costa realmente disponibile e appetibile per le concessioni è molto più limitata, rendendo l’applicazione della direttiva europea del tutto giustificata.
La Commissione Europea ha così riaperto la procedura d’infrazione contro l’Italia.
Il nodo degli indennizzi
Uno degli ultimi sviluppi è il tentativo del governo di garantire indennizzi ai concessionari uscenti, nel caso perdano le nuove gare. L’idea è tutelare gli investimenti fatti — ad esempio, chi ha realizzato una piscina o ha costruito strutture permanenti. Tuttavia, la bozza del decreto presentata a Bruxelles include anche beni mobili e addirittura beni immateriali come il marchio o il know-how, elementi che non rientrano tra quelli tutelabili secondo la direttiva Bolkestein. La Commissione ha quindi bocciato la proposta.
Il caos normativo: ogni Comune si muove per conto suo
A oggi, in assenza di una legge nazionale coerente con le direttive europee e con le sentenze italiane, i Comuni sono liberi di agire autonomamente, avviando gare per le concessioni balneari. Ma quanti lo stanno facendo davvero? Solo 26 Comuni, al momento, hanno attivato le procedure di gara.
Tra questi, spicca Forte dei Marmi, dove una sola concessione ha raggiunto 510.000 euro di offerta per tre anni: un indizio molto concreto di quanto lo Stato potrebbe incassare se le gare fossero finalmente regolate e trasparenti.
Anche Roma, con il litorale di Ostia, ha avviato gare per 31 concessioni su 70 totali. Le gare sono state vinte quasi tutte dai vecchi gestori, tranne in 8 casi, ma a causa dei ritardi le concessioni sono ancora gestite dagli stessi imprenditori, per non compromettere la stagione balneare.
Ma quindi le spiagge diventeranno libere?
No. Ed è proprio questo il nodo da chiarire. Conformarsi alla direttiva europea non significa rendere le spiagge libere. Le concessioni continueranno a esistere, ma verranno assegnate tramite gare pubbliche, abolendo l’attuale meccanismo clientelare che favorisce pochi, privilegiati, con rinnovi automatici.
Il cambiamento non è nella destinazione d’uso delle spiagge, ma nella modalità di accesso a quel privilegio. Lo Stato potrà così aumentare le entrate, garantire trasparenza e concorrenza, e assicurare che chi gestisce un tratto di costa sia davvero il più meritevole e competitivo.
Il punto di vista dei balneari
Gli imprenditori balneari si oppongono strenuamente alle gare, sostenendo che gli investimenti fatti negli anni, le strutture costruite, l’esperienza maturata e la stagionalità dell’attività meritino tutele e riconoscimenti. Ritengono inoltre che le gare possano favorire grandi gruppi stranieri a scapito del tessuto imprenditoriale locale.
Tuttavia, proprio questa corporativa resistenza al cambiamento ha mantenuto per decenni una distorsione del mercato, impedendo allo Stato di valorizzare un bene prezioso e impedendo l’accesso a nuovi soggetti potenzialmente più innovativi.
Verso un nuovo equilibrio tra diritti e doveri
Le concessioni balneari non devono sparire, ma essere riformate. Il diritto di accesso alla battigia, la libera fruizione del mare e la valorizzazione economica delle spiagge possono coesistere, se gestiti in modo trasparente e moderno.
L’obiettivo non è “togliere le spiagge ai balneari”, ma rimuovere privilegi e introdurre regole chiare e meritocratiche, nel rispetto delle norme europee e nell’interesse dell’intera collettività.
Domande frequenti sulle concessioni balneari (FAQ)
Cosa sono le concessioni balneari?
Le concessioni balneari sono autorizzazioni rilasciate dallo Stato per l’utilizzo economico di tratti di spiaggia, affidati a privati (di solito stabilimenti) in cambio del pagamento di un canone. Si tratta di beni demaniali, quindi pubblici, concessi temporaneamente.
Le concessioni balneari verranno abolite?
No, le concessioni non saranno abolite. La normativa europea e le recenti sentenze chiedono che vengano semplicemente messe a gara pubblica, per favorire trasparenza e concorrenza.
Cosa prevede la direttiva Bolkestein per le concessioni balneari?
La direttiva 2006/123/CE impone che le concessioni su beni pubblici scarsi siano assegnate tramite gare imparziali, con divieto di rinnovo automatico e senza privilegi per i concessionari uscenti.
Cosa si intende per “bene scarso” nel caso delle spiagge?
Un bene è considerato scarso non solo in base alla sua disponibilità fisica, ma anche in funzione della domanda economica e del valore strategico. Spiagge balneabili e ad alto rendimento sono per definizione risorse scarse secondo il diritto europeo.
È vero che lo Stato guadagna poco dalle concessioni attuali?
Sì. I canoni annui pagati sono spesso irrisori rispetto ai profitti generati. In media, i canoni incidono per poco più dell’1% sui ricavi degli stabilimenti balneari, con un’evasione stimata intorno al 18%.
Le spiagge diventeranno libere se si applica la Bolkestein?
No. Le spiagge continueranno a essere gestite tramite concessioni, ma con una procedura trasparente e competitiva. La direttiva non impone la liberalizzazione dell’accesso, ma la riforma delle modalità di assegnazione.
Cosa succede se un Comune decide di indire una gara?
Ogni Comune è libero di bandire le concessioni secondo le sentenze del Consiglio di Stato. Alcuni — come Forte dei Marmi o Ostia — l’hanno già fatto, dimostrando che il nuovo sistema può portare introiti molto più elevati per lo Stato.
