Sintesi dei contenuti
ToggleIl trading online può offrire interessanti opportunità di guadagno, ma in Italia i profitti da investimenti finanziari sono soggetti a tassazione specifica. In questa guida spiegheremo in modo semplice come funzionano tasse e fisco per il trading online in Italia, affrontando tassazione delle rendite finanziarie (azioni, obbligazioni, forex, criptovalute, ecc.), le differenze tra un conto trading con broker italiano (regime amministrato) e un conto con broker estero (regime dichiarativo), gli obblighi di dichiarazione dei conti esteri (Quadro RW, RT) e aspetti come tassazione delle plusvalenze, trattamento delle perdite e casi particolari (titoli di Stato, piattaforme P2P come Bondora). Il tutto con esempi pratici, casi d’uso concreti e riferimenti a fonti ufficiali per fornire un quadro completo e affidabile.
Tasse e Fisco in Italia per il Trading Online
In Italia i guadagni da trading online rientrano nelle rendite finanziarie e sono tassati con un’imposta sostitutiva separata rispetto al reddito da lavoro. Dal 2014 l’aliquota standard è il 26% sui profitti netti da investimenti finanziari. Questo significa che, in generale, su ogni plusvalenza (capital gain) realizzata – ad esempio vendendo azioni a un prezzo superiore a quello d’acquisto – si paga il 26% di tasse allo Stato. Tale aliquota del 26% si applica oggi in maniera uniforme alla maggior parte dei redditi finanziari (dividendi, interessi, capital gain), semplificando il sistema che in passato distingueva tra partecipazioni qualificate e non.
Non tutte le rendite finanziarie però sono tassate al 26%. Il legislatore ha previsto alcune eccezioni di carattere agevolativo, in primis per i titoli di Stato: interessi e plusvalenze su titoli di Stato italiani scontano un’aliquota ridotta del 12,5%, invece del 26%. Questo regime agevolato vale anche per titoli emessi da Stati esteri “virtuosi” inseriti nella cosiddetta white list (giurisdizioni che cooperano con l’Italia sul piano fiscale). Ad esempio, gli interessi su un BTP o su un bond governativo di un paese white list pagano 12,5 euro di tasse ogni 100 euro percepiti, mentre gli interessi su un’obbligazione societaria ordinaria pagano 26 euro ogni 100 euro di cedola. L’obiettivo è incentivare gli investimenti in debito pubblico, considerati di interesse generale. Oltre ai titoli di Stato, poche altre casistiche godono di aliquote ridotte (come alcuni strumenti per il risparmio pensionistico o finanziamenti infragruppo), ma per la gran parte delle rendite finanziarie vale la regola del 26% fisso.
Un altro prelievo fiscale da considerare è l’imposta di bollo (o equivalente). I conti e dossier titoli detenuti presso intermediari italiani pagano una imposta di bollo annuale pari al 0,2% del valore di portafoglio (minimo €34,20 annui). Nel caso di conti trading esteri, si applica un’imposta analoga chiamata IVAFE (Imposta sul Valore delle Attività Finanziarie Estere), sempre pari allo 0,2% sul valore degli strumenti finanziari detenuti all’estero. In pratica l’IVAFE funziona come il “bollo” sulle attività finanziarie fuori dall’Italia, ed è dovuta in dichiarazione dei redditi dal contribuente (mentre il bollo su conto italiano viene addebitato automaticamente dalla banca). Riassumendo, due sono le principali tasse sul trading in Italia: il 26% sui guadagni netti (capital gain, interessi, dividendi) e lo 0,2% annuo sul valore delle attività finanziarie (bollo/IVAFE).
Rendite finanziarie e Reddito da Trading: che cosa sono?
Quando parliamo di rendite finanziarie intendiamo tutti i proventi derivanti da investimenti: possono essere redditi di capitale (interessi, dividendi, cedole) o redditi diversi di natura finanziaria (plusvalenze da compravendita di strumenti finanziari, ad esempio guadagni dalla vendita di azioni, valute, crypto, etc.). Queste categorie hanno rilevanza fiscale perché determinano come si calcolano le imposte e come si possono compensare perdite e profitti.
- Redditi di capitale: sono i proventi percepiti in quanto frutto del capitale investito, senza una cessione. Esempi: gli interessi di un conto deposito o di un bond, i dividendi distribuiti da un’azione, i proventi periodici di un fondo. Su questi redditi in Italia di norma si applica un prelievo alla fonte (o imposta sostitutiva) del 26%, spesso direttamente dall’intermediario che li eroga. Per i dividendi esteri, ad esempio, la normativa prevede una tassazione del 26% sul “netto frontiera” (cioè sull’importo al netto delle eventuali ritenute operate dallo Stato estero). Importante: i redditi di capitale non possono essere compensati con eventuali minusvalenze. Ciò significa che non possiamo “recuperare” tasse da dividendi o interessi pagate su un investimento che rende, usando le perdite subite su un altro – le imposte su interessi e cedole vanno sempre versate indipendentemente dall’andamento di altre operazioni.
- Redditi diversi di natura finanziaria: sono i guadagni derivanti da cessione onerosa di attività finanziarie, quindi tipicamente le plusvalenze da compravendita (ad esempio la differenza positiva tra prezzo di vendita e prezzo di acquisto di un’azione, ETF, cripto, etc.) oppure altri proventi variabili legati a rimborso o permuta di strumenti. Rientrano qui anche i guadagni da operazioni in derivati, FOREX, CFD, e in generale tutte le fattispecie speculative non inquadrate come redditi di capitale. I redditi diversi finanziari per i privati sono anch’essi tassati al 26% imposta sostitutiva, ma con un trattamento peculiare: le minusvalenze (perdite) possono essere compensate con plusvalenze della stessa natura. In altre parole, se in un anno alcune operazioni vanno in perdita, quelle minusvalenze si possono sottrarre dai profitti imponibili ottenuti da altre operazioni dello stesso tipo, pagando così il 26% solo sul guadagno netto complessivo. Inoltre, se in un anno si hanno più perdite che profitti, la minusvalenza residua è riportabile per i 4 anni successivi, per compensare futuri redditi finanziari della medesima categoria. Ad esempio, una perdita realizzata nel 2025 su un titolo potrà essere usata fino al 2029 per abbattere plusvalenze future. È fondamentale indicare in dichiarazione l’eventuale credito di minusvalenze ogni anno (nei riquadri appositi del Quadro RT) per mantenerlo utilizzabile.
In sintesi, il “reddito finanziario” di un trader è composto da redditi di capitale e redditi diversi. Ai fini pratici, per un investitore persona fisica, la tassazione avviene sempre per via separata (non rientra nel reddito IRPEF da lavoro) e in forma proporzionale: 26% sulla gran parte dei proventi finanziari, con 12,5% riservato ai titoli di Stato (interessi e plusvalenze). La distinzione tra categorie rileva soprattutto per le regole di compensazione: le plusvalenze possono ridursi con minusvalenze, mentre interessi e dividendi pagano sempre la loro aliquota fissa senza possibilità di sconto.
Tassazione dei guadagni da Azioni, Obbligazioni, Forex e Criptovalute
Passiamo adesso in rassegna la tassazione delle principali tipologie di investimenti e strumenti finanziari, per capire quanto si paga di tasse sui guadagni ottenuti con azioni, obbligazioni, cambi forex e criptovalute. Vedremo inoltre esempi concreti per ciascun caso.
Guadagni da Azioni e Obbligazioni (Plusvalenze, Dividendi e Cedole)
Azioni – Se vendi un’azione quotata ottenendo un profitto (plusvalenza) rispetto al prezzo di acquisto, quella plusvalenza costituisce un reddito diverso tassato al 26%. Ad esempio, se compri 100 azioni a €10 (spesa €1000) e rivendi tutto a €12 incassando €1200, hai realizzato €200 di plusvalenza e dovrai pagare €52 di imposta sostitutiva (26%) su quel profitto. Se invece subisci una perdita (rivendi sotto il prezzo di carico), potrai usare quella minusvalenza per compensare altri guadagni dello stesso anno o dei quattro successivi, come spiegato sopra. I dividendi azionari percepiti sono invece redditi di capitale: anch’essi per i privati scontano un’aliquota del 26%, generalmente tramite ritenuta applicata dall’intermediario. Se detieni azioni italiane presso una banca italiana, vedrai già accreditati i dividendi al netto della ritenuta d’imposta del 26%. In caso di dividendi esteri, si possono subire due livelli di tassazione: un’eventuale ritenuta nello Stato estero (spesso ridotta grazie alle convenzioni bilaterali), e la tassazione italiana del 26% sul netto ricevuto. Per evitare la doppia imposizione, l’Italia riconosce un credito d’imposta per le ritenute estere entro certi limiti (questo aspetto esula però dalla trattazione generale sulle tasse trading, ed è bene consultare un esperto in caso di dividendi esteri significativi).
Obbligazioni – I guadagni derivanti da obbligazioni possono essere di due tipi: cedole periodiche (interessi) e plusvalenze sulla vendita del titolo o rimborso a scadenza. Le cedole delle obbligazioni private (corporate) sono redditi di capitale tassati al 26% come i normali interessi bancari. Discorso diverso per le obbligazioni governative: come anticipato, gli interessi dei titoli di Stato italiani (es. BTP, BOT, CCT) godono dell’aliquota agevolata 12,5%. Lo stesso vale per titoli di Stato di Paesi esteri in white list. Se il Paese emittente è invece in black list (non accordo con l’Italia), le cedole tornano a essere tassate al 26%. Le plusvalenze realizzate vendendo un’obbligazione prima della scadenza sono trattate come redditi diversi: aliquota 26% normalmente. Per i titoli di Stato, anche le plusvalenze sono agevolate al 12,5% effettivo (tecnicamente tassando solo il 48,08% del guadagno al 26%). Esempio pratico: acquisti un BTP a €900 e lo rivendi a €1.000, realizzando €100 di plusvalenza; la legge prevede che in questo caso la base imponibile sia ridotta al 48,08% della plusvalenza (quindi €48,08) su cui si applica il 26%, ottenendo un’imposta di circa €12,5 (pari al 12,5% di €100). Anche le obbligazioni estere “equiparate” (white list) seguono lo stesso meccanismo di favore. Invece, vendere prima della scadenza un bond corporate o un titolo di Stato black list con profitto comporta la tassazione piena al 26%.
Strumenti assimilati: i principi sopra valgono anche per altri strumenti finanziari come ETF, fondi comuni, derivati, certificates, ecc. In generale i proventi e capital gain legati a questi investimenti ricadono nell’aliquota 26%, ad eccezione dei casi in cui l’ETF/fondo goda di fiscalità speciale (es. ETF armonizzati distribuiscono proventi tassati al 26% ma con gestione automatica in Italia, mentre ETF non armonizzati possono richiedere la dichiarazione dei redditi e un diverso calcolo). Nel dubbio, è bene verificare la classificazione fiscale dello strumento; casi particolari come gli ETF non armonizzati sono comunque relativamente rari.
Forex e trading sulle valute estere
Il trading sul Forex (Foreign Exchange), ovvero sul mercato valutario, è un’altra attività popolare. Fiscalmente, i guadagni da forex trading vengono trattati come redditi diversi di natura finanziaria, quindi tassati anche essi con l’aliquota fissa del 26%. Ad esempio, se attraverso una piattaforma di trading sulle valute ottieni un profitto di €500 speculando sul cambio euro/dollaro, dovrai €130 di imposte. Non esiste una soglia di esenzione generale per il Forex trading: a differenza dei depositi in valuta (dove c’è una vecchia regola che esenta le plusvalenze su cambi per giacenze sotto circa €51.645,69), nel trading attivo ogni gain realizzato è imponibile. La norma dei €51.645,69 infatti si riferisce alla detenzione di valuta estera come risparmio (oltre tale cifra e per almeno 7 giorni le eventuali plusvalute da cambio diventano imponibili ai fini IRPEF); ma quando si fa trading di valute tramite broker, si è normalmente nel regime dei redditi diversi finanziari, tassati sempre al 26% come per azioni e altri strumenti.
Occorre anche distinguere se l’attività di forex avviene tramite strumenti derivati (es. CFD, futures sulle valute) o acquisto diretto di valuta: nella pratica comune del trading online, si opera con CFD e margin trading, generando plusvalenze e minusvalenze similmente al trading azionario. Tali risultati confluiscono nella dichiarazione dei redditi (quadro RT) se il broker è estero, oppure vengono gestiti direttamente dal broker se è italiano (vedremo a breve questa differenza). In sintesi: i guadagni da Forex online sono tassati al 26% in regime dichiarativo, e sono compensabili con eventuali perdite su altri strumenti finanziari. Non dimentichiamo inoltre che molte piattaforme estere di forex (e CFD) non agiscono da sostituto d’imposta, quindi il trader dovrà dichiarare autonomamente i risultati (più avanti dettagli su come fare la dichiarazione per conti esteri).
Criptovalute: la tassazione dei guadagni in Italia
Le criptovalute (bitcoin, ethereum, etc.) hanno un regime fiscale dedicato solo di recente. Fino al 2022 erano trattate in modo assimilabile alle valute estere, ma con la Legge di Bilancio 2023 il legislatore italiano ha introdotto una disciplina specifica (blog.moneyviz.it). Dal 2023 i profitti da cripto-attività sono tassati al 26% come redditi diversi, in modo analogo alle altre plusvalenze finanziarie. La normativa ha anche fissato una soglia di esenzione di €2.000 annui: in pratica i primi 2.000 euro di plusvalenze su criptovalute in un anno non sono imponibili, e la tassazione si applica solo sull’eventuale eccedenza. Ad esempio, se nel 2024 hai realizzato €1.800 di guadagni vendendo criptovalute, non dovrai alcuna imposta perché sei sotto la soglia. Se invece il profitto è di €5.000, la franchigia opera fino a €2.000 e pagherai il 26% su €3.000, ovvero €780 di imposta. Questa interpretazione come franchigia è stata chiarita dall’Agenzia delle Entrate nelle istruzioni recenti (inizialmente c’era il dubbio se i 2.000€ fossero franchigia o soglia on/off).
Attenzione però: le regole sulle cripto stanno evolvendo. La Legge di Bilancio 2025 ha già previsto alcune modifiche importanti: dall’anno d’imposta 2024 viene eliminata l’esenzione dei 2.000€ (quindi tutti i guadagni saranno da dichiarare, anche di pochi euro) e, a partire dal 2026, l’aliquota sulle plusvalenze crypto salirà dal 26% al 33% (fiscooggi.it). È stata inoltre introdotta la possibilità di regolarizzare la posizione fiscale delle criptovalute detenute al 1° gennaio 2025 optando per la determinazione del valore iniziale a tale data e versando un’imposta sostitutiva agevolata (una sorta di step-up fiscale). Queste novità mirano sia ad aumentare il gettito futuro sia a semplificare la gestione delle criptovalute dal punto di vista fiscale, equiparandole sempre più agli altri investimenti. Per il momento, comunque, per l’anno 2023-2024 rimane in vigore il 26% con franchigia 2.000€. I guadagni su cripto vanno calcolati considerando ogni realizzo (conversione in euro o in altre valute/cripto) e dichiarati nel Quadro RT – Sezione dedicata alle cripto-attività, del Modello Redditi. Anche le criptovalute detenute a fine anno vanno indicate nel Quadro RW ai fini del monitoraggio (sono assimilate ad attività estere). Da notare che non c’è un’imposta patrimoniale fissa sulle cripto, poiché non rientrano nell’IVAFE (l’IVAFE si applica solo ai conti correnti esteri e agli strumenti finanziari tradizionali detenuti fuori Italia).
Esempio pratico su criptovalute: immaginiamo di aver comprato 0.5 Bitcoin a €20.000 e rivenduto l’intero ammontare a €30.000 l’anno successivo. Il ricavo è €15.000 (avendo speso €10.000). Se questa fosse l’unica operazione dell’anno, la plusvalenza sarebbe €5.000. Considerando la franchigia, €2.000 sono esenti e €3.000 tassati al 26%, quindi €780 di tasse dovute. Dal 2024 in poi, senza franchigia, su €5.000 si pagherebbero €1.300 (o €1.650 qualora l’aliquota salisse al 33% dal 2026). È evidente dunque che chi fa trading di criptovalute deve tenersi aggiornato sulle norme in evoluzione e, se necessario, valutare le opzioni di affrancamento offerte dalle leggi di bilancio per “mettersi in regola” sulle posizioni pregresse.
Broker italiano (sostituto d’imposta) vs broker estero: regimi a confronto
Un elemento fondamentale nella tassazione del trading è la differenza tra operare con un broker italiano o con un broker estero. Dal punto di vista fiscale cambia radicalmente la gestione delle imposte: nel primo caso siamo in regime amministrato, nel secondo in regime dichiarativo. Vediamo cosa significano questi termini e quali sono pro e contro di ciascun regime, anche con l’aiuto di una tabella riassuntiva.
Broker italiano – Regime amministrato: le banche e società di intermediazione finanziaria italiane (Fineco, Directa, Intesa, Unicredit, Banca Sella, ecc., nonché broker internazionali con stabile organizzazione in Italia come IW Bank, alcuni broker CFD con sede italiana, ecc.) agiscono da sostituto d’imposta per i clienti retail. Ciò significa che si occupano direttamente di calcolare e versare le tasse dovute sugli investimenti al posto tuo. In pratica applicano automaticamente la ritenuta del 26% sui profitti (su plusvalenze, interessi, dividendi) al momento opportuno, addebitandoti l’importo dovuto e girandolo al Fisco. Allo stesso modo, applicano l’imposta di bollo dello 0,2% annuale sul dossier titoli, prelevandola dal conto. Inoltre, gestiscono in autonomia compensazioni di minusvalenze e plusvalenze all’interno del conto: ad esempio, se nello stesso anno sul tuo conto hai fatto 10 operazioni in utile e 5 in perdita, il broker compensa il risultato e ti tassa solo sul guadagno netto. A fine anno (o in tempo reale) ti fornirà un rendiconto fiscale con il calcolo di imposte pagate e l’eventuale zainetto fiscale di minusvalenze residue. Con il regime amministrato, il contribuente non deve presentare nulla in dichiarazione per quei redditi, perché ha già assolto le imposte tramite l’intermediario. Solo in casi particolari – ad esempio se ha altre minusvalenze extra da recuperare, oppure ETF non armonizzati o crediti d’imposta esteri – potrebbe essere necessaria integrazione, ma in generale il vantaggio enorme del broker italiano è la semplicità: zero sbattimenti col Fisco, fa tutto la banca. Di contro, i broker italiani spesso applicano commissioni leggermente più alte e meno promozioni rispetto a certi broker esteri low-cost, ma questo rientra nelle valutazioni di convenienza personale.
Broker estero – Regime dichiarativo: molti italiani sono attratti da piattaforme di trading estere (come Degiro, Interactive Brokers, eToro, Trading212, Binance e altri exchange crypto, ecc.) per via di costi ridotti o ampia offerta di prodotti. Quando si opera con un broker estero senza stabile organizzazione in Italia, questi non funge da sostituto d’imposta. Significa che nessuna tassa viene trattenuta alla fonte: se realizzi un profitto, il broker ti accredita il lordo, e tocca a te gestire tutta la fiscalità tramite la dichiarazione dei redditi. In pratica sei in regime dichiarativo: dovrai calcolare l’ammontare di plusvalenze e altri redditi finanziari realizzati ogni anno e riportarli nel Modello Redditi Persone Fisiche nei quadri appositi (RT, RM, RL, come vedremo), pagando poi le imposte dovute con modello F24. Anche se sei un lavoratore dipendente che di solito fa solo il modello 730, dovrai comunque compilare i quadri del modello Redditi per inserire questi dati, poiché il 730 non gestisce da solo redditi esteri di capitale/diversi. Questo è un punto critico: molti pensano erroneamente che usando un broker estero “piccolo” o avendo fatto poche operazioni possano evitare la trafila burocratica, ma non è così. La legge obbliga a dichiarare i conti esteri e i relativi redditi anche se l’ammontare è modesto o in perdita (non esiste una soglia minima di esenzione generalizzata per il monitoraggio fiscale).
Ecco una tabella comparativa che riassume le principali differenze tra regime amministrato (broker italiano) e dichiarativo (broker estero):
| Aspetto | Broker Italiano (Regime amministrato) | Broker Estero (Regime dichiarativo) |
|---|---|---|
| Calcolo e pagamento imposte | A cura del broker (sostituto d’imposta): applica 26% su plusvalenze/dividendi e preleva bollo 0,2% automaticamente. Il cliente riceve importi già al netto delle tasse dovute. | A cura del contribuente: nessuna ritenuta automatica. Il cliente deve dichiarare i redditi e versare le imposte (26% su plusvalenze, ecc.) tramite F24 in autonomia. |
| Gestione di plusvalenze e minusvalenze | Automatica: il broker compensa perdite e profitti nello stesso conto. Le minusvalenze non compensate nell’anno restano in un “zainetto fiscale” presso la banca per essere usate nei 4 anni seguenti. | Manuale: il contribuente riporta in dichiarazione tutte le plusvalenze e minusvalenze (quadro RT). Le compensazioni avvengono nel calcolo complessivo e le minusvalenze eccedenti si riportano ai 4 anni successivi (va compilato ogni anno il quadro RT indicando le perdite pregresse). |
| Imposta di bollo / IVAFE | Imposta di bollo 0,2% sul valore di conti e titoli, addebitata dal broker italiano direttamente (minimo €34,20 annui). | IVAFE 0,2% sul valore di conti e attività finanziarie estere a fine anno: calcolo e pagamento spettano al contribuente in dichiarazione. Va compilato il quadro RW per il monitoraggio patrimoniale e l’IVAFE. |
| Dichiarazione dei redditi | Non richiesta per i redditi già tassati dal sostituto d’imposta. Il contribuente non deve inserire in dichiarazione i movimenti in regime amministrato (tranne casi particolari). | Obbligatoria: il contribuente deve presentare il Modello Redditi PF e compilare i quadri RW (patrimonio estero) e RT/RM/RL relativi ai redditi prodotti. Ciò vale anche se il conto estero è in perdita o con saldo minimo. |
Nella pratica: se operi solo con un broker italiano, la tua dichiarazione dei redditi rimane semplice (potresti non dover menzionare nulla del tuo trading). Se invece hai conti esteri, dovrai ogni anno fare i conti con il Quadro RW e la sezione RT (più eventuali altri quadri) del modello Redditi.
Per completezza, va citata un’ulteriore opzione offerta da alcuni intermediari italiani: il regime gestito. In questo regime, tipicamente offerto da SIM o consulenti, il cliente affida al gestore il patrimonio e quest’ultimo opera con mandato. Fiscalmente, il gestore calcola periodicamente il risultato della gestione e applica un’imposta sostitutiva sul risultato maturato. È un caso un po’ diverso dal trading self-service oggetto di questo articolo, quindi non lo approfondiremo; basti sapere che il regime gestito mantiene il vantaggio di sollevare l’investitore dagli adempimenti fiscali, simile al regime amministrato.
Il quadro RW e la dichiarazione dei conti trading esteri
Un capitolo delicato del trading con broker esteri è la compilazione del Quadro RW in dichiarazione dei redditi. Il quadro RW serve per il monitoraggio fiscale delle attività estere e per il calcolo dell’IVAFE. Vediamo i punti chiave:
- Chi deve compilare il quadro RW? Tutti i contribuenti residenti in Italia che detengono investimenti finanziari o attività patrimoniali all’estero. Un conto trading presso un broker estero rientra in pieno in questo obbligo. Ciò include conti in Svizzera, account su piattaforme di trading USA o UE, conti su exchange di criptovalute esteri, conti CFD/forex fuori Italia, ecc. Non ci sono esenzioni generali legate all’importo: anche un conto con pochi euro va dichiarato (tecnicamente esistono alcune soglie per conti correnti esteri con giacenze molto basse, ma in presenza di investimenti in titoli l’obbligo di RW scatta comunque).
- Cosa indicare nel quadro RW? Vanno dichiarati il valore massimo e il valore al 31/12 di ciascun investimento/attività estera. Per un conto titoli, si dichiara il totale del portafoglio (somme e strumenti) detenuto. Se sul conto estero c’è anche liquidità in valuta, va riportata convertita in euro. Servono i dati identificativi del rapporto (numero conto, intermediario estero, paese). Lo scopo è dichiarare al Fisco “ho tot soldi investiti all’estero presso X”.
- IVAFE: Dal valore dichiarato in RW si calcola l’IVAFE dovuta. Come detto, per conti deposito e conto correnti esteri l’IVAFE è pari a €34,20 annui (imposta fissa) se la giacenza media supera €5.000. Per gli strumenti finanziari (conto titoli) l’IVAFE è lo 0,2% del valore a fine anno (o del valore di realizzo, se l’investimento è chiuso in corso d’anno). Ad esempio, se a fine anno hai €10.000 in titoli su un broker estero, dovrai €20 di IVAFE. L’IVAFE, analogamente al bollo, va pagata anche se il portafoglio è in perdita (perché è un’imposta patrimoniale sul possesso, non un’imposta sul reddito). Importante: se hai sia soldi liquidi che titoli, potresti pagare doppia imposta – €34,20 sul conto se la media >5k + 0,2% sui titoli – ma le regole prevedono che la soglia dei €5.000 si applichi solo alla liquidità. In pratica: conti trading con solo titoli pagano sempre 0,2% su qualunque importo; conti esteri con solo cash seguono la regola dei €5k/15k per l’esenzione; conti misti pagano bollo su cash >5k e sempre 0,2% su titoli.
- Quadro RT, RM, RL: Oltre al quadro RW (patrimonio), nella dichiarazione vanno inseriti i redditi prodotti dal conto estero. In particolare, le plusvalenze da trading (azioni, derivati, forex, crypto) si riportano nel Quadro RT Sezione II (capital gain da assoggettare a imposta sostitutiva 26%). Qui si indica il totale dei profitti e perdite dell’anno e si calcola l’imposta dovuta. Dividendi e interessi esteri normalmente anch’essi vanno dichiarati, spesso nel Quadro RM (se soggetti a imposta sostitutiva) o in alcuni casi in RT. Un caso particolare è quello degli interessi da peer-to-peer lending estero, che vedremo tra poco, i quali non rientrano nell’imposta sostitutiva ma come redditi diversi “ordinari” da dichiarare in RL. Il Quadro RL infatti raccoglie redditi diversi che vanno a tassazione IRPEF ordinaria. Di solito i trader individuali non lo usano, tranne appunto per redditi atipici come interessi P2P esteri. In ogni caso, per chi utilizza un broker estero, è fondamentale compilare tutti i quadri obbligatori (RW, RT, ecc.) anche se l’importo dei movimenti è basso: omettere la dichiarazione di un conto estero può portare a pesanti sanzioni, indipendentemente dal fatto che ci fossero imposte da versare o meno.
In conclusione, il regime dichiarativo richiede più impegno burocratico: spesso i trader si affidano a un commercialista esperto o a servizi specializzati in fiscalità del trading (in rete ne esistono diversi) per farsi aiutare. Fortunatamente l’Agenzia delle Entrate fornisce anche modelli precompilati più completi: dal 2023-2024 alcune informazioni sugli investimenti all’estero e sulle cripto potrebbero essere inserite nella dichiarazione precompilata (se il contribuente le ha comunicate, ad esempio tramite l’opzione di affrancamento crypto). Ma in generale, responsabilità di dichiarare correttamente spetta al contribuente. Vale la pena sottolineare che anche chi ha chiuso il conto estero durante l’anno deve comunque dichiararlo per il periodo in cui è esistito e pagare l’IVAFE dovuta per quei mesi.
Tassazione dei Titoli di Stato Italiani ed Esteri
Come già accennato, i titoli di Stato rappresentano un caso a parte nel panorama delle tasse sul trading in Italia. Riassumiamo i punti chiave:
- Titoli di Stato italiani (BTP, BOT, CCT, ecc.): cedole e altri interessi sono tassati al 12,5% invece che 26%. Allo stesso modo, le plusvalenze realizzate vendendo titoli di Stato (o ricevendo rimborsi superiori al prezzo d’acquisto) beneficiano di un’aliquota effettiva del 12,5%. Per ottenere questo risultato, la normativa (D.L. 66/2014) stabilisce che solo il 48,08% del capital gain sui titoli pubblici sia assoggettato all’imposta del 26%, così che il prelievo finale sia il 12,5%. Esempio: compri un BTP a 95 e lo rivendi a 100; hai guadagnato +5 (cioè +5,26%). Invece di pagare 1,30 (26% di 5) pagherai circa €0,65 (12,5% di 5). Questo rende i titoli di Stato strumenti fiscalmente efficienti per l’investitore privato italiano.
- Titoli di Stato esteri: se lo Stato emittente è nella white list (es. la gran parte dei Paesi UE, USA, ecc. che hanno accordi di scambio info con l’Italia), i titoli pubblici di quel Paese sono equiparati a quelli italiani per la tassazione. Quindi cedole e plusvalenze al 12,5%. Se invece parliamo di titoli emessi da Paesi black list (giurisdizioni non cooperative), perdono l’agevolazione e tornano a tassazione standard (26%). Ad ogni modo, oggi la lista nera comprende poche nazioni molto particolari; la maggior parte dei titoli governativi accessibili ai risparmiatori rientra nei white list. Ad esempio: un Buono del Tesoro USA o un Bund tedesco hanno cedole tassate al 12,5% in Italia, così come l’eventuale plusvalenza sul loro trading. Un titolo di Stato emesso da un paradiso fiscale non-white list (ipotizziamo, per assurdo, un bond governativo di uno Stato offshore) vedrebbe la tassazione salire al 26%.
- Titoli equiparati: Oltre ai titoli di Stato in senso stretto, beneficiano dell’aliquota 12,5% anche alcuni titoli equiparati per legge: ad esempio i buoni fruttiferi postali, i titoli emessi da enti locali italiani (regioni, province, comuni), e i titoli di stati esteri e loro enti locali white list. Anche gli interessi di Eurobond sovranazionali (BEI, BERS, ecc.) solitamente sono assimilati ai titoli pubblici ai fini fiscali. Invece le obbligazioni corporate, anche se emesse all’estero, non godono di alcuna riduzione: tassate sempre 26% (fanno eccezione solo alcuni particolari bond agevolati, ad es. i “Piani di risparmio a lungo termine” se rispettano certi requisiti, ma entriamo in nicchie specifiche).
In definitiva, chi investe in titoli di Stato ha un piccolo vantaggio fiscale. Caveat: se i titoli di Stato sono detenuti su un conto estero, bisognerà comunque dichiararli nel quadro RW e pagare l’IVAFE come per qualunque attività finanziaria estera. L’IVAFE è scollegata dall’aliquota sulle rendite, quindi pagherai ad esempio il 12,5% sul rendimento ma anche lo 0,2% annuo sul valore se il titolo è su un conto estero. Se invece li hai su un conto italiano, il 12,5% è applicato alla fonte e l’imposta di bollo (0,2%) viene prelevata dal deposito titoli come al solito.
Tabella riassuntiva aliquote Titoli di Stato vs Obbligazioni ordinarie:
- Interessi/cedole Titoli di Stato (Italia + esteri white list): 12,5%
- Plusvalenze Titoli di Stato (Italia + white list): 12,5% (effettivo, tramite imponibile ridotto al 48,08% tassato al 26%)
- Interessi obbligazioni corporate e titoli Stato black list: 26%
- Plusvalenze obbligazioni corporate e titoli Stato black list: 26%
Questa differenza può incidere nella scelta degli investimenti, specie per chi ha grossi capitali in obbligazioni: un BTP che rende il 4% lordo ha un netto ~3,5%, mentre un bond aziendale estero al 4% lordo lascia un netto ~2,96% dopo il 26% di tasse.
Trading sulle piattaforme Peer-to-Peer (es. Bondora) e tassazione degli interessi
Un caso particolare di investimento online è il Peer-to-Peer lending (P2P), ovvero le piattaforme che mettono in contatto investitori privati e richiedenti prestiti (come Bondora, Mintos, EstateGuru e altre). Qui l’investitore presta denaro ad altri privati o imprese attraverso la piattaforma, ottenendo in cambio interessi sui prestiti erogati. Come vengono tassati questi interessi?
Dipende dove ha sede la piattaforma:
- Piattaforme P2P italiane: dal 1° gennaio 2018, per le persone fisiche gli interessi derivanti dal P2P lending sono assimilati ai redditi di capitale e soggetti a una ritenuta alla fonte a titolo d’imposta del 26%. Ciò significa che se investo in una piattaforma italiana (es. alcune piattaforme di lending crowdfunding domestiche), quando mi vengono pagati gli interessi sul mio conto, la piattaforma applica già un 26% di ritenuta e quel che ricevo è netto e definitivo. In pratica funziona come per un conto deposito: le tasse sugli interessi P2P italiani vengono pagate automaticamente e l’investitore non deve fare altro (salvo dichiarare eventuali importi lordi e ritenute se richiesto dal precompilato, ma generalmente no).
- Piattaforme P2P estere (Bondora, Mintos, ecc.): se la piattaforma non è sostituto d’imposta in Italia, gli interessi ti vengono pagati al lordo. Sarà il tuo compito dichiararli e tassarli nel modo corretto. E qui c’è una particolarità: gli interessi da P2P esteri non rientrano nei redditi di capitale tassati al 26%, bensì – secondo interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate – nei redditi diversi soggetti a IRPEF ordinaria. In pratica, li devi inserire nel Quadro RL come “redditi diversi” e finiranno sommandosi agli altri tuoi redditi soggetti a IRPEF (es. reddito da lavoro) per essere tassati secondo gli scaglioni progressivi. Questo può essere penalizzante per chi ha redditi medio-alti, dato che l’aliquota marginale IRPEF può essere più alta del 26% (il massimo IRPEF è 43%). Esempio: hai €1.000 di interessi da Bondora; se il tuo reddito complessivo è basso (poniamo sotto 15.000€), pagherai il 23% di quei €1.000 in tasse (€230). Se il tuo reddito è più elevato, potresti pagare il 35% o 43%. Dunque il P2P estero conviene, dal lato fiscale, soprattutto a chi non supera i primi scaglioni IRPEF. Questa differenza di trattamento (IRPEF anziché 26%) nasce dal fatto che la normativa P2P con ritenuta del 26% si applica solo agli operatori italiani; con operatori esteri, formalmente gli interessi non subiscono imposta sostitutiva e vengono considerati redditi tassabili in modo “ordinario”.
Oltre a ciò, chi investe su piattaforme come Bondora deve dichiarare il conto estero nel quadro RW (come per qualsiasi attività finanziaria all’estero) e pagare l’IVAFE 0,2% sul valore del conto (in pratica sul capitale investito in prestiti, calcolato sul valore di fine anno). Anche se su Bondora c’è liquidità non investita o interessi accreditati, andrà tutto incluso. Non ci sono soglie di esenzione, quindi anche piccoli investimenti P2P esteri formalmente richiedono l’RW (es. €100 su Bondora andrebbero dichiarati, con IVAFE di €0,20).
Riassumendo per Bondora & co.: gli interessi percepiti vanno dichiarati nel quadro RL e sommati al reddito complessivo (tassati agli scaglioni IRPEF); il conto va inserito nel quadro RW con pagamento dell’IVAFE; nessuna imposta viene prelevata dalla piattaforma stessa. Conviene tenere traccia dei movimenti (interessi incassati mese per mese, eventuali perdite per crediti inesigibili ecc.) perché vanno rendicontati. Purtroppo il trattamento non è dei migliori fiscalmente, ma è la prassi attuale. Alcuni sperano in futuri accordi o semplificazioni (ad esempio una tassazione piatta 26% anche per questi interessi esteri, come già avviene per gli italiani), ma al momento la normativa va applicata così.
Caso pratico P2P: Marco investe €5.000 su Bondora Go&Grow, ottenendo un interesse del 6,75% annuo. In un anno matura circa €338 di interessi. Marco non ha altri redditi oltre al suo lavoro da dipendente (RAL €25.000). Questi €338 si sommano al suo reddito imponibile IRPEF, venendo tassati per scaglioni: su €338, i primi ~€300 ricadono nello scaglione 25%, i restanti nel 35% (ipotizzando che con €25k di stipendio fosse già nel secondo scaglione). Pagherà circa €95 di tasse su questi interessi (circa il 28% medio). Se quei €5.000 li avesse investiti in un conto italiano P2P, la piattaforma avrebbe trattenuto €88 di tasse (26%) e lui non avrebbe dovuto dichiarare nulla. Dunque la differenza c’è, anche se su cifre piccole non è enorme. In compenso, Bondora ha magari reso di più o offerto condizioni migliori rispetto a opportunità italiane: la scelta tra piattaforma italiana vs estera nel P2P va ponderata considerando anche l’aspetto fiscale.
Plusvalenze, perdite e strategie di compensazione
Per concludere, torniamo su un tema fondamentale per chi fa trading: la gestione di plusvalenze e minusvalenze. Abbiamo visto come funziona la compensazione, ma è utile ricapitolare con un focus pratico, perché ottimizzare le tasse sul trading significa anche saper sfruttare le perdite in modo efficiente.
- Compensare nello stesso anno: in regime dichiarativo, quando compili il quadro RT, inserisci il totale delle plusvalenze e delle minusvalenze realizzate. Solo il saldo positivo viene tassato. Quindi, se nel 2025 hai guadagnato €10.000 vendendo alcune azioni ma hai perso €4.000 su altre operazioni, pagherai il 26% su €6.000 (cioè €1.560) anziché sul totale dei guadagni. Esempio numerico: Luca nel 2025 realizza tre trade vincenti (+€1000, +€500, +€1500) e due in perdita (-€800, -€700). Il totale delle plusvalenze è €3.000, il totale delle perdite €1.500. In RT indicherà €3.000 di guadagni e €1.500 di perdite, per un netto di €1.500 tassabile. Paga €390 di imposta invece che €780 che avrebbe pagato senza compensazione – un bel risparmio grazie al fatto che le minus riducono la base imponibile.
- Riporto delle minusvalenze: se il saldo è negativo (più perdite che guadagni), non si pagano tasse per quell’anno e la perdita residua viene “conservata” per il futuro. Come detto, le minusvalenze sono utilizzabili nei 4 anni successivi (fiscoetasse.com). È importante riportarle ogni anno in dichiarazione, altrimenti si perdono. Un errore comune è pensare “quest’anno ho solo perso, non dichiaro niente”: sbagliato, perché devi comunque dichiarare il conto estero e anche comunicare la minusvalenza per poterla dedurre domani. In regime amministrato, è la banca a tenere traccia nello zainetto fiscale: ad esempio se nel 2024 hai -€2.000 di minus non compensati, la banca li riporterà e nel 2025 li userà automaticamente per compensare nuovi guadagni (fino a scadenza nel 2028). Se cambi banca/broker, puoi chiedere una certificazione delle minusvalenze residue da consegnare al nuovo intermediario o da usare in dichiarazione.
- Compensazioni tra diverse attività: la regola generale è che si possono compensare solo redditi della stessa categoria. Ciò significa che minusvalenze da redditi diversi finanziari (es. perdite su azioni, derivati, crypto) possono compensare plusvalenze di qualsiasi altro reddito diverso finanziario (non c’è più distinzione tra partecipazioni qualificate/non qual., dopo il 2019 è tutto un insieme unico tassato 26%). Non è però possibile compensare redditi di capitale: ad esempio, tasse pagate su interessi o dividendi non si recuperano con minusvalenze. Inoltre, non si compensano redditi finanziari con redditi di altra natura (non potete usare una perdita in Borsa per ridurre il reddito del lavoro o viceversa). In sostanza, il trading fa storia a sé nel bene e nel male: potete ottimizzare all’interno del vostro “bilancio” di trading, ma non oltre.
- Strategie di ottimizzazione fiscale: molti investitori a fine anno valutano di fare qualche operazione ad hoc per ottimizzare le imposte. Ad esempio, se hanno in portafoglio titoli in guadagno e titoli in perdita, possono scegliere di vendere entro l’anno quelli in perdita per generare minusvalenze utili a compensare i guadagni già realizzati (loss harvesting). Oppure, se hanno minusvalenze in scadenza (perché vecchie di quasi 4 anni), potrebbe convenire vendere titoli in profitto latente entro il 31/12 per sfruttare quelle perdite prima che scadano (in questo modo pagano meno tasse sul realizzo). Sono scelte che vanno fatte con criterio – non ha senso vendere buoni investimenti solo per ragioni fiscali, ma in alcuni casi la pianificazione fiscale può migliorare il rendimento netto. In regime amministrato alcune banche offrono il “conto fiscale” consolidato se avete più dossier: ad esempio, potete compensare minus tra conti intestati allo stesso codice fiscale, presentando richiesta entro fine anno. Se invece avete plusvalenze su un conto amministrato e minus su un conto dichiarativo (estero), potete ottenere un risparmio solo dichiarando volontariamente i redditi anche del conto amministrato per usare le minus (operazione complessa, da valutare con un fiscalista).
In conclusione, pagare le tasse sui guadagni del trading in Italia è doveroso, ma anche pianificabile. Conoscere le regole su tassazione delle plusvalenze, rendite finanziarie, compensazione delle minusvalenze aiuta il trader a massimizzare il proprio guadagno netto. L’importante è essere sempre in regola con il Fisco: il trading online è sotto la lente delle autorità fiscali e grazie allo scambio di informazioni tra Paesi (vedi Common Reporting Standard per i conti esteri) è ormai difficile “nascondere” attività finanziarie. Meglio allora dichiarare tutto correttamente – magari facendosi assistere da un esperto – e sfruttare legalmente le norme per pagare il giusto. Speriamo che questa guida abbia chiarito i principali dubbi su tasse e trading in Italia: dalle tasse sugli investimenti online alle particolarità della dichiarazione del conto trading estero, ora hai una panoramica completa per muoverti in sicurezza tra fisco e finanza. Buon trading (e buon tax planning)!

