C’era una volta in cui bastava redigere un contratto inserendovi delle clausole ambigue o di dubbia interpretazione, per poi poter far leva su di esse per ricattare l’altro contraente. Era un modo semplice e subdolo attraverso cui il contraente più forte poteva esercitare il maggior controllo possibile (prima) predisponendo il contratto e (poi) imponendone la sua interpretazione.
Un tempo le cose stavano così, poi il diritto ha fatto il suo corso e ha arginato questo fenomeno garantendo adeguata tutela ai contraenti più deboli. La norma a cui va attribuito questo merito è l’art. 1370 c.c. che espressamente prevede che “Le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti s’interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro”.
Questo stesso principio è stato ribadito anche nel Codice del Consumo, secondo cui, nel caso in cui appaia dubbia l’interpretazione da dare ad una clausola, allora si dovrà adottare quella più favole al consumatore. Sono proprio i consumatori, infatti, per antonomasia i soggetti contrattualmente più deboli, ovvero quelli a cui, “prendere o lasciare”, è imposto dal predisponente un modulo contrattuale redatto unilateralmente e rispetto al quale non è concessa alcuna modifica o negoziazione.
Per intenderci meglio, è sufficiente pensare ai contratti telefonici, a quelli assicurativi o a quelli bancari (solo per citarne alcuni), rispetto ai quali il consumatore può semplicemente scegliere se firmarli o meno, ma non può chiedere che siano apportate deroghe o modifiche.
Questo principio (che per chi ama le frasi in latino e definito “interpretatio contra proferentem”) è stato recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza del 18 gennaio 2016 n. 668.
Come specificato dalla Cassazione, tale regola pone a carico del predisponente l’onere di evitare ambiguità nell’interpretazione del regolamento contrattuale, poiché chi redige una clausola “ambigua” assume il rischio che la stessa venga interpretata in modo difforme dal suo intendimento.
Nella fattispecie concreta, una società produttrice di calcestruzzo aveva stipulato tre polizze assicurative a seguito di un finanziamento.
Dopo l’esplosione di una autoclave da cui era derivata la morte di una persona, l’azienda domandando l’indennizzo se lo vedeva rifiutato poiché secondo le compagnie assicuratrici l’evento non rientrava tra le garanzie coperte dai contratti di assicurazione.
In primo grado le compagnie di assicurazione venivano condannate al pagamento dell’indennità richiesta, tuttavia in appello la sentenza veniva ribaltata e la domanda risarcitoria respinta.
La Suprema Corte in via preliminare si sofferma sull’obbligo che il contratto sia redatto in modo chiaro ed esauriente, infatti nel caso specifico la polizza era stata sottoscritta per l’avviamento dello stabilimento industriale con tutti i connessi rischi.
Si rileva quindi che la clausola risarcitoria era ambigua e dunque, in presenza di pattuizioni polisenso è inibito al giudice attribuire ad esse un significato che nuoccia al predisponente poiché ciò configura una violazione dell’art. 1362 c.c.